mercoledì 24 settembre 2014

From the United Nations to Obama's jungle

United Nations Charter Article 1
Though the world is now looking at the General Assembly in NY for the climate change issue, it is no secret that the United Nations has been losing power in the last decades.
Though there was no legal basis for the attack on Afghanistan in 2001, it has been 2003 war in Iraq which really had a negative impact on the image and credibility of the United Nations. Since then, right after Kofi Annan finished his mandate in 2006, the United Nations has disappeared from the international scene, especially in conflict issues management (like conflict prevention, peacekeeping and peacebuilding). Furthermore, financial problems and continuos funding gap, together with the lack of an outstanding Secretary General, turn out to be the coup de grace on the Wilsonian world order built after WWII was over. 
Now, as ISIS is gaining ground in Syria, and Al-Qaeda is back on the scene, the hesitating world community is putting together a coalition of countries whose mission and objectives are not so clear. A coalition formally led from Obama's United States and France, without any UN blessing at all. 
At least, in 2001 (Afghanistan) and 2003 (Iraq) the UN was somehow called to have a prominent role on both issues. Even if the Charter's principles were not respected.
On top of that, while at that time the Security Council monopoly on the use of force -whose only exception is given by Art.51 of the UN Charter- was clearly violated, at this time an international legal basis to attack ISIS existed. Nevertheless, countries keep playing their own military strategies careless of international treaties and agreements which, now yes, would allow them to defend Iraq and Syria (UN Member States), and also the whole region, from an international security threat. 
This can only mean one thing for our beloved international organization: that once again, the UN is failing to prove itself as the keystone of world order. 
Heading to a multipolar world, as suggested by many international relations theories, probably means going in the direction of a world without any specific country leadership (neither the US nor China). We know Obama is a supporter of a new multipolar world order, and his foreign policy proves it; but if things keep working just like this, with a weakened United Nations and America on the edge of a new wave of isolationism in international politics, what we will have, more than a multipolar world, will be a jungle. 

AV       

mercoledì 6 agosto 2014

La Sapienza che preferisce Schettino a Ratzinger

Una lectio magistralis (che in latino significa la "lezione del maestro") è una lezione che un esperto su una determinata materia tiene davanti a un gruppo di studenti universitari. Come si può ben capire, si tratta di un privilegio che viene dato a delle personalità eminenti, la cui ampia conoscenza su un tema gli permette di ricevere un invito a parlare davanti a una platea di giovani laureandi. 
A quanto pare però, la Sapienza di Roma, una delle più antiche università italiane, la stessa che sette anni fa impedì all'allora Papa Benedetto XVI di inaugurare l'anno accademico 2007/2008 con una sua lectio magistralis, ha regalato questo privilegio lo scorso 5 luglio ad una figura ben più degna: Francesco Schettino. Il comandante dell'ormai famosa Costa Concordia - più famosa forse per la sua rimozione che per i 33 morti nelle acque dell'Isola del Giglio - ha infatti tenuto una sua lectio sulla gestione del panico in situazioni di emergenza davanti agli studenti di un Master in Scienze Criminologiche dell'università romana.
Che un potenziale criminale come Schettino (saranno comunque i giudici e i processi in corso a dirci se Schettino lo è o meno) venga invitato a parlare di un tema simile davanti a studenti di criminologia, in uno degli atenei più prestigiosi d'Italia, la dice lunga sullo stato di salute delle università e dell'istruzione nel nostro paese. Che sia una trovata pubblicitaria o un'azione di marketing voluta dagli organizzatori del master non è dato saperlo. Tuttavia, si tratta di una scelta di cattivo gusto, che snatura l'alta funzione educativa che dovrebbe avere un intervento davanti a studenti universitari. 
Una cosa però è certa, alla Sapienza di Roma, docenti, rettore e responsabili della comunicazione dell'ateneo ritengono abbia più valore una lectio dell'esemplare comandante che abbandonò la nave che quella di un pontefice.     

AV

lunedì 28 luglio 2014

Cent'anni fa la Grande Guerra

Esattamente cento anni fa, il 28 luglio del 1914, con la dichiarazione di guerra dell'impero austro-ungarico al regno di Serbia, a seguito dell'omicidio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo-Este, scoppiava il primo conflitto mondiale. Una guerra crudele che per quattro anni distrusse l'intera Europa, coinvolgendo le colonie dell'Impero britannico, gli Stati Uniti e il Giappone. Chiamata anche "grande guerra", la prima guerra mondiale fu, fino a quel momento storico, il più grande e sanguinoso conflitto mai combattuto. 
L'Italia, entrata in guerra soltanto un anno dopo (24 maggio 1915),  fu uno dei paesi (insieme a Francia, Germania ed Impero ottomano) a registrare il più alto numero di vittime, perdendo addirittura a fine conflitto il 3,48% della sua popolazione. Chi vi scrive, proprio sul Piave perse il proprio bisnonno, Giuseppe Castelli. Una persona che forse non avrei mai conosciuto ma che ha lasciato mia nonna orfana a nemmeno un anno di età, come lei spesso mi raccontava con gli occhi lucidi.
Nonostante, Marinetti e i futuristi parlassero della guerra come sola igiene del mondo, i conflitti sono portatori di enormi conseguenze. È infatti innegabile - come è solito ricordarci chi ci ha preceduto - che la guerra è soltanto miseria, sofferenza e povertà. 
E tuttavia, oggi, 28 luglio 2014, ad un secolo da quel conflitto e a 75 anni dalla seconda guerra mondiale, assistiamo alla barbarie della guerra e della miseria in più parti del mondo. Dal Medio Oriente, all'Ucraina i conflitti più stupidi e inutili continuano a divampare sulla cartina geografica, segno che la storia non ci ha insegnato davvero nulla. Prova ne è l'assenza di un doveroso ricordo sulla stampa internazionale di una data che nonostante la lontananza nel tempo costituisce pur sempre una grossa ferita nella storia dell'umanità. 

Per tutti quei morti in trincea nel lontano 1914/18, per tutti coloro che persero i propri cari e un pezzo della propria vita in quel terribile conflitto, e soprattutto per quanti oggi continuano a patire le sofferenze di guerre ingiuste, il mio ricordo e quello di questo blog. 

AV

venerdì 23 maggio 2014

Europa al voto. Ma fatta l'Europa bisogna fare gli europei.

Quando alcuni mesi fa passeggiando per il Paseo de la Castellana a Madrid, nei pressi della Rappresentanza Permanente della Commissione Europea, vidi un mega cartello con su scritto "European Year of Citizens 2013" ovvero Anno Europeo dei Cittadini 2013, la domanda che mi sono fatto è stata: ma chi se ne è accorto? Ovviamente nessuno o quasi. Neanche un occhio un po' più sensibile a questo tipo di tematiche come il sottoscritto, ha notato l'esistenza di un anno interamente dedicato dall'Europa ai suoi cittadini. Ci ricordiamo delle tante tasse, leggi e leggine imposte da Bruxelles. Ma la presenza di un anno europeo del cittadino ai più è completamente sfuggita. Ed il motivo è semplice: nessuno ha creato un'identità di cittadino europeo sin da quando è nato il progetto europeo. Ma c'è anche dell'altro. Se si associa all'Europa solo la parola burocrazia, in un secolo in cui il mondo cerca la semplificazione normativa, è chiaro che qualche problema di comunicazione verso l'esterno esiste. Se si associa alla parola Europa solo un'eurocrazia incomprensibile, in un secolo in cui la gente chiede più trasparenza, evidentemente c'è qualcosa che non va. Chi sa per esempio che il 9 maggio di ogni anno, almeno dal 1964, si celebra la Festa dell'Europa? Ovviamente nessuno o quasi.  

A partire da ieri, tutti e 28 i paesi dell'Unione sono stati chiamati ad eleggere il nuovo Parlamento Europeo, una Camera di rappresentanti provenienti da tutto il continente, che avrà il compito di eleggere la nuova Commissione e approvare il bilancio UE per i prossimi cinque anni. Se però chiediamo a un passante qualsiasi chi erano i candidati alla Presidenza della Commissione, dubito che qualcuno di loro conosca la risposta.

In pochi sanno che circa l'82% dei decreti legislativi approvati dal nostro parlamento è attuazione di direttive europee. E non è difficile pensare che qualcosa di simile avvenga anche negli altri paesi dell'UE. 
Di fronte a uno scenario simile, con una presenza sempre più crescente dell'Europa nelle nostre vite quotidiane, non è più possibile ridurre le elezioni europee ad elezioni di serie B, fomentando l'astensionismo. Non si può far vincere il confronto elettorale a chi parla di quanto brutta e cattiva sia l'Europa, mentre chi dovrebbe raccontarci quanto è bella e utile questa invenzione di Schuman, Spinelli, Adenauer e Monnet, tace e si concentra su questioni di tutt'altro genere.
Bisogna ripartire dall'educazione e dalle nuove generazioni. Spiegargli cos'è l'Europa, e soprattutto cos'era il nostro continente prima che nascesse l'Unione. Mi sembra il minimo se si vuole evitare lo sfascio di uno dei progetti politici più interessanti e lungimiranti della storia del nostro continente. 


AV

giovedì 1 maggio 2014

Reddito minimo. Ma è davvero una priorità?

E' normale che in una data come l'1 maggio si parli di lavoro come motore per la ripresa. Ma per parlare di lavoro bisogna che questo paese si responsabilizzi e riprenda fiducia in sé stesso lavorando, rimboccandosi le maniche e facendo camminare il cervello. 
I migliori fermenti per una ripresa a tutti i livelli sono le idee e per avere idee bisogna pensare, avere fantasia e soprattutto osare. Un paese che non ha idee è un paese che non ha futuro. Se l'idea più ingegnosa per far ripartire il paese sono 80 euro in busta paga o il reddito minimo garantito, in una gara a chi la spara più grossa tra Renzi, Grillo e Berlusconi in vista delle europee, allora non abbiamo imparato proprio nulla da 7 anni di crisi e recessione. 
La crisi andava vista come un'occasione per capire i nostri errori, dove abbiamo sbagliato, cosa va corretto. Ma a guardare l'attuale dibattito elettorale sembrano cambiati solo i protagonisti. Per il resto, chi governa o chi si candida a governare il paese, persevera con gli stessi atteggiamenti. E perseverare si sa, è diabolico! 

Ma parliamo di reddito minimo garantito, che è poi il motivo di questo post.  

Se passasse l'idea di istituire una prestazione sociale del genere - esistente in quasi tutti i paesi europei meno Italia e Grecia - purtroppo nella furba Italia, soprattutto centro-meridionale, sappiamo bene cosa succederebbe. Sarebbero molti ad approfittare dell'aiuto di stato pur non avendone diritto. Per non parlare degli effetti psicologici che avrebbe su una popolazione che vive di assistenzialismo: la gente smetterebbe di cercare lavoro e, quel che è peggio, smetterebbe di ingegnarsi per crearlo. Nel profondo e immaturo meridione d'Italia, dove vi sono diffuse situazioni di degrado, un aiuto del genere potrebbe risollevare gli animi e le speranze di molti ma non finirebbe di produrre quel circolo vizioso che oggi vede alcuni lavorare in nero metà dell'anno e nel frattempo ricevere ingiustamente il sussidio di disoccupazione. Sono situazioni molto diffuse nel meridione e, anche se in misura minore, nel resto d'Italia. Un paese dove lo stato viene visto più come un nemico da fottere che come un pezzo della nostra vita quotidiana. 
Prima di affrontare questioni come il reddito minimo garantito, bisogna infatti affrontare il tema del sommerso, del lavoro nero, dell'evasione fiscale e della lotta alla corruzione. E' impossibile continuare con un'Italia a doppia velocità in uno stato centralista come il nostro. Forse in un sistema federale avere un paese a doppia o tripla velocità non avrebbe gli stessi effetti, ma così com'è l'Italia (fiscale) non può permetterselo. Come dimostra un documento dell'Unità di Informazione Finanziaria del 2012 in Trentino ogni 100 Euro di imposta versata alle casse dello stato quelli evasi sono 20,31. Al sud si va dai 64,47 Euro del Molise ai 59,77 della Campania e ai 56,86 della Sicilia. Più del doppio. Statistiche che non fanno altro che evidenziare la forte distanza tra nord e sud Italia, che non ha paragoni in nessuna parte d'Europa. 

Prima di parlare di reddito minimo di cittadinanza bisogna quindi recuperare una parte del paese e riportarla alla legalità. Bisogna combattere la grossa evasione fiscale dei colletti bianchi e la fisiologica evasione fiscale del meridione d'Italia. Bisogna riportare alla luce del sole il lavoro in nero, incentivando la creazione di posti di lavoro e la nascita di aziende che siano in grado di produrre cose utili, di essere competitive e innovative sul mercato globale. Bisogna quindi promuovere la formazione - sulla quale si è lucrato attraverso una pioggia di fondi europei sprecati e senza alcun controllo - per avere profili di qualità al servizio delle nostre imprese e organizzazioni. Bisogna sviluppare un piano infrastrutturale e di manutenzione dell'esistente, soprattutto nel sud del paese. Infine, una volta che si saranno appianati i vari squilibri tra le due Italie, a quel punto sì che avrà senso parlare di reddito minimo garantito. 
Il paese va riunificato secondo una sensata autonomia regionale, priva di qualsiasi demagogia. Perché qui, o si fanno le riforme di cui sopra e nell'ordine appena elencato o - parafrasando una frase cara al nostro Risorgimento - si muore!

AV 

lunedì 7 aprile 2014

Nessuno ricorderà questo genocidio, ma c'è stato!

Nell'Italietta chiusa a riccio sulle vicende di casa propria, mi sarebbe piaciuto trovare sulla stampa un bel reportage dedicato ad uno dei tre genocidi più gravi del '900. 
E purtroppo, i riflettori dei media italiani anziché essere puntati su Kigali, capitale del Ruanda, hanno preferito la solita poltiglia fatta di non notizie.

Mi sarebbe piaciuto che si parlasse di Ruanda perché esattamente vent'anni fa, nella notte tra il 6 e il 7 aprile del 1994, iniziava uno dei peggiori massacri avuti luogo dal secondo dopoguerra in poi: il genocidio compiuto dall'etnia hutu nei confronti dei propri fratelli ruandesi di etnia tutsi. Una strage per fortuna durata solo pochi mesi (il conflitto sarebbe terminato il 16 luglio dello stesso anno) ma che provocò la folle uccisione, giustificata come pulizia etnica, di 800mila persone.
La commemorazione di oggi riapre molte ferite. Quelle di un paese e di un intero continente, dove lo spettro del neocolonialismo ottocentesco ha lasciato piaghe e ferite difficili da rimarginare (per saperne di più sul genocidio ruandese clicca qui).

Dalle commemorazioni di oggi a Kigali, alle quali prenderanno parte il segretario dell'ONU Ban-Ki Moon e l'attuale presidente del Ruanda, Paul Kagame, una figura piuttosto controversa, il paese cerca di riunirsi attorno alle proprie vittime. Attorno a quel sangue provocato dalle stesse mani fraterne, forse istigate da menti occidentali. Un paese che cerca di uscire dalla pagina più buia del proprio libro di storia, affidandosi anche alle sapienti mani di grandi agenzie di PR londinesi, come fece qualche anno fa, per rilanciare la propria immagine.

Ma mentre si cerca di rilanciare il Ruanda, raccontandolo attraverso gli indicatori economici, il genocidio avvenuto in quel paese vive il grande paradosso che di un massacro così documentato e così vicino ai nostri giorni poco si parli. Molti dei nostri giovani, nemmeno sanno cosa sia avvenuto in Ruanda in quel non lontano 1994. Non sono bastati nè un film (Hotel Ruanda) nè pagine e pagine di inchiostro e reportage per far imprimere nella mente dell'uomo l'esistenza di questo genocidio, uno dei più gravi della storia recente dopo quello armeno per mano turca e la Shoah. 



AV

domenica 23 marzo 2014

Muore il De Gasperi spagnolo - Il Motore della Transizione

La copertina dedicata dal Time a Suárez
Dopo una lunga malattia, muore all'età di 81 anni Adolfo Suárez, il primo ministro della Spagna post-franchista. 
Traduco, per quanti non conoscessero questa importante figura della storia spagnola - il cui ruolo è paragonabile a quello assunto da Alcide De Gasperi nell'Italia post-fascista - un articolo tratto dal quotidiano El Mundo, dal titolo El Motor de la Transición - Il Motore della Transizione


Il Motore della Transizione

Raramente, un uomo politico riceve in vita il riconoscimento storico del suo operato. Adolfo Suárez González (Cebreros, Avila, 1932 - Madrid, 2014), primo presidente della Spagna democratica, è stato uno dei pochi 'prescelti'. Le date chiave della sua vita politica coincidono con i momenti più intensi della storia della Spagna negli anni successivi alla morte di Franco.

La sua nomina, il 3 luglio 1976, suscitò poco entusiasmo e molte critiche. Per i settori più conservatori del regime, il re aveva scelto un uomo politico troppo giovane e inesperto. Nemmeno l'opposizione, che sognava la democrazia, vide di buon occhio la nomina di un uomo che era stato governatore civile di Segovia (1969-1973), Presidente della TV di stato (1969-1973) e ministro segretario generale del Movimento nel gabinetto di Arias Navarro (1975-1976). Nessuno allora poteva immaginare che 20 anni più tardi, quel laureato in legge avrebbe ricevuto il premio "Príncipe de Asturias de la Concordia" per il suo «comportamento politico esemplare durante la fondazione della democrazia» spagnola.

Gli 11 mesi in cui governò Suárez fino alla celebrazione delle prime elezioni democratiche sono state caratterizzate dall'opposizione del bunker franchista, dal terrorismo dell'ETA, dai GRAPO e dalla violenza da parte di gruppi di estrema destra. Suárez spinse fino al limite le sue intenzioni di dialogo e consenso, tenendo sempre presente l'obiettivo di legalizzare i partiti al fine di garantire elezioni veramente libere. Sono storici i suoi incontri con leader come Felipe González (PSOE), Jordi Pujol (CDC) o Santiago Carrillo (PCE).

L'adozione della Legge di Riforma Politica, primo passo per la fine del regime di Franco, diede al progetto di Suárez quella legittimità sociale che gli veniva negata in altri ambienti. Dopo la legalizzazione dei partiti e dei sindacati, l'amnistia per i prigionieri politici e il ritorno dall'esilio dei principali leader del Partito Comunista Spagnolo, sono soltanto i primi passi verso il primo appuntamento con la democrazia dal tempo della Seconda Repubblica: il 15 giugno 1977 la maggioranza degli spagnoli dà la sua fiducia alla coalizione fondata da Suárez, l'Unione del Centro Democratico (UCD). Comincia una tappa in cui vengono firmati i Patti della Moncloa per il risanamento economico, vengono approvati gli statuti preautonomici di Catalogna, Paesi Baschi e Galizia, e viene scritta, con il consenso di tutti i gruppi politici, la Costituzione spagnola. Il trionfo della UCD alle elezioni del 1979 fa di Adolfo Suárez il primo presidente costituzionale.

Il suo ruolo in politica è legato all'epoca d'oro della UCD. Le critiche alla sua gestione però provocano le sue dimissioni il 29 gennaio 1981. E come presidente in carica, avrebbe giocato un ruolo fondamentale durante il colpo di stato del 23 febbrario dello stesso anno. Poi, le divisioni interne nel partito lo portano a lasciare i suoi incarichi politici e ad aprire il suo studio legale a Madrid. Tuttavia, Suárez non rinuncia alle sue aspirazioni politiche: il neo nominato duca Suárez fonda il Centro Democratico e Sociale (CDS), che però alle elezioni generali del 1982 vinte dal PSOE ottiene soltanto due deputati - la UCD, senza Suárez, diviene la quarta forza politica dietro ad AP e CiU - mentre alle elezioni del 1986, sparita la UCD, riuscì ad ottenere fino a 19 seggi. Ma il declino del partito nel 1989 (perse 5 deputati  e scarso rendimento nelle elezioni comunali e regionali del 1991 diedero la conferma che ciò che Adolfo Suárez doveva fare in politica, lo aveva già fatto in un'altra fase della storia spagnola.

Degli ultimi anni alla guida del CDS risalta la sua attività all'interno dell'Internazionale Liberale e Progressista, prima come vicepresidente per gli affari latinoamericani e poi come presidente dell'organizzazione. La sua presenza attiva sulla scena internazionale durante questa fase, stride con il suo poco protagonismo nella politica spagnola causato, secondo molti analisti, dal declino del CDS a partire dal 1989.

Il declino in politica è però nulla in confronto alla tragedia personale che da lì a poco sarebbe apparsa nella sua vita privata. Nel 1991, assumendosi le proprie responsabilità, Suárez si dimette dalla carica di presidente del CDS, rinuncia al suo seggio e si ritira dalla politica. Ancora non sa che la moglie e la figlia avranno bisogno di lui, al loro fianco, nella loro battaglia senza successo contro il cancro.

Dedito interamente alla sua famiglia, Suárez rompe il suo silenzio soltanto nel 1995, chiedendo il dialogo nel bel mezzo delle tensioni politiche esistenti nel paese, e nel 2003 per sostenere la candidatura del figlio come presidente della regione di Castilla-La Mancha. Poi 'sparisce'. Una malattia degenerativa lo ha consumato a poco a poco fino a privarlo dei suoi ricordi. Per fortuna, la Storia non dimentica.


Traduzione: AV

lunedì 17 marzo 2014

Lui, lei e l'altro: tre cose che dovreste sapere sull'Ucraina

In un interessante articolo pubblicato qualche giorno fa sul Washington Post, l'ex segretario di stato americano Henry Kissinger suggerisce di neutralizzare l'Ucraina, ipotizzando una relazione tra Kiev e Mosca simile a quella che la Finlandia intrattiene da anni con la Russia: dentro l'Unione Europea da un lato ma per nulla ostile al vicino russo dall'altro. Un'ipotesi interessante quella di Kissinger, anche se le dimensioni geografiche, demografiche ed energetiche di Kiev non sono comparabili con quelle di Helsinki.
E' però inutile negare che per storia, cultura e lingua l'Ucraina non può essere né europea né russa. L'errore di fondo fatto finora da tutti gli attori di questo potenziale conflitto è invece quello di aver pensato all'Ucraina come ad un feudo da annettere ora all'Europa ora alla Russia, senza comprendere che un simile atteggiamento non farebbe altro che balcanizzare il conflitto, aggravandone la situazione.
A partire da questo "peccato originale", che Bruxelles, Washington e il Cremlino si portano dietro, ci sono altri tre aspetti che vanno considerati nella questione ucraina.

1) LUI: ILLEGALITA' INTERNAZIONALE
Al di là del fatto che quanto avvenuto ieri, dal punto di vista internazionale, assomiglia all'Anschluss (l'annessione dell'Austria alla Germania nazista) del 1938 di hitleriana memoria, più che all'indipendenza del Kosovo dalla Serbia del 2008, la questione della legittimità del referendum non è la leva su cui possono fare forza i governi occidentali. Sotto il profilo della legalità internazionale, infatti, il governo attualmente in carica in Ucraina, e appoggiato da Europa e USA, ha ben poco di legittimo. Dalla presa del potere, alla destituzione forzata dell'ex presidente Viktor Yanukovic, fino alla nascita di un esecutivo dove i ministri di Difesa, Agricoltura, Risorse Naturali e il vice premier appartengo al partito filonazista Svoboda, il nuovo governo ucraino è - al pari dell'annessione della Crimea da parte della Russia - al limite della legalità internazionale.

2) LEI: GLI INTERESSI ECONOMICI EUROPEI
Mentre le cancellerie europee continuano a dichiarare illegale l'annessione della Crimea, questa crisi internazionale non sta alterando per nulla il business tra le economie occidentali e la Russia. E' notizia di oggi che i russi di Rosneft, il più grande colosso energetico al mondo, il cui 70% appartiene al governo di Mosca, sono entrati in Pirelli con il 13%. Così come non è un mistero che la commessa di due portaerei che la Francia sta per vendere alla Russia non verrà minimamente intaccata dalla crisi ucraina. Ed è sempre notizia di oggi che la tedesca RWE, la seconda utility della Germania, ha venduto una sua controllata fortemente indebitata al miliardario russo Mikhail Friedman per 5,1 miliardi di euro.

3) L'ALTRO: LA PARTITA RUSSIA-USA
Più che all'Europa, il potenziale conflitto sembra strettamente collegato alla politica estera americana in Iran e all'impossibilità degli USA di entrare in azione un anno fa in Siria. Non è un mistero che il veto di Putin ad attaccare il regime di Bashar al-Assad ha di fatto rallentato la marcia americana su Damasco, lasciando Obama con le mani legate in merito al conflitto siriano. C'è poi la questione del ritiro americano dall'Afghanistan. Washington non può inimicarsi Mosca perchè il territorio russo è strategico per la ritirata delle truppe americane dal paese centro asiatico. Per non parlare degli interessi economici che gli USA vantano in Russia. Un aspetto questo, per il quale non converrebbe nemmeno a Putin un surriscaldamento della situazione in Crimea. 

Farebbero bene a tener conto di tutti questi fattori le diplomazie di Russia (lui), Europa (lei) e USA (l'altro) prima di andare in giro per conferenze stampe a raccontare mezze verità. 

AV

giovedì 13 marzo 2014

Vi racconto il primo anno di Bergoglio

"Fratelli e sorelle, buonasera!". Bisogna partire da questa frase per capire Bergoglio. Una frase così semplice che può essere un pò considerata come il motore del primo anno di pontificato di Papa Francesco. Una semplicità, quella del Papa venuto dall'altra parte del mondo, che si è tradotta in linguaggi, gesti e soprattutto in immagini del tutto inediti. 


Non è un caso se oggi è stato un proliferare di servizi ed articoli sul web, pronti a raccontare l'anno di Francesco in foto.

Rolling Stone dedica la sua copertina a Papa Francesco
Dalla scelta del nome (Francesco, il santo dei poveri), ai primissimi piccoli gesti del nuovo pontefice, carichi però di grandi messaggi, come pagarsi l'hotel in cui aveva soggiornato durante i giorni del conclave di tasca propria, o spostarsi in autobus insieme ai colleghi cardinali, Bergoglio è stato una continua sorpresa. In un mondo in cui le gerarchie e il potere contano sempre di più. In una globalizzazione che emargina gli ultimi, e li reclude nell'angolo dell'indifferenza. In un tempo pieno di ingiustizie gratuite in nome del dio denaro. In un contesto così, arriva il Papa da lontano. Da un altro mondo. E non solo geograficamente. Bergoglio viene da un mondo che non è la curia romana, che non è la Chiesa dei rituali sterili, dei pedofili, dell'omofobia, degli obiettori di coscienza, della discriminazione nei confronti di chi ha patito una disgrazia come il divorzio. Bergoglio è un'altra Chiesa. La Chiesa degli ultimi, la Chiesa dei più deboli, di chi ha meno. La Chiesa della semplicità.

Ancora è troppo presto per raccogliere i frutti di questa nuova Chiesa. Ciò che è certo è che questo primo anno di Papa Francesco ha cambiato, forse in modo irreversibile, il modo di comunicare dell'istituzione più antica del mondo.


AV

martedì 11 marzo 2014

Mi reflexión sobre el 11-M

Eran las 7:37 de la mañana del 11 de marzo 2004 cuando tres bombas estallaban en la estación de Atocha. Acababa de producirse el peor atentado terrorista que España recuerde. Un minuto después dos bombas explotaban en la estación del Pozo y otra en la estación de Santa Eugenia. Sólo en la estación del Pozo morirán alrededor de 60 personas.
Segundos más tarde, a las 7:39, cuatro bombas explotan en la Calle de Téllez, 500 metros antes de que el tren donde se produjo este último atentado entrara en la estación de Atocha. 
En definitiva, los atentados del 11-M sacudieron el país con 191 muertos. España sufrió una conmoción sin precedentes.

Una de las explosiones en Atocha desde una cámara de seguridad

El continente europeo ha sido herido más veces por el terrorismo yihadista, y los atentados de la capital española son de hecho el mayor atentado islamista cometido en el continente. 
Ahora, aunque parezca que el mundo occidental haya acabado con el terrorismo islamista, las semillas para que el famoso "choque de civilizaciones" siga creciendo no terminan de ser fertiles. La inestabilidad en muchos países del norte de África, los grupos extremistas que amenazan la paz en el Cuerno de Africa - como demuestra el reciente atentado en el centro comercial Westgate de Nairobi en Kenya - la situación en Darfur y los recientes acontecimientos contra los cristianos en Nigeria. Todos estos hechos no nos deben hacer pensar que la lucha contra el terrorismo se ha acabado con el 11-M o con la muerte de Osama Bin Laden. Quedan pendientes el conflicto en Oriente Medio entre Israel y Palestina, el de Líbano, la guerra civil en Siria, junto a la complicada cuestión de Afghanistan y al asunto nuclear en Irán. 

En el día de la memoria, mientras los andenes de la estación de Atocha siguen vivos, la llama del peligro del terrorismo islamista tiene que seguir igual de viva. El problema de la seguridad internacional, tanto en Europa como en el mundo entero, no puede ser una cuestión secundaria en la agenda política de nuestros gobiernos. Aunque la crisis nos ha hecho olvidar demasiadas prioridades, la amenaza del terrorismo islamista sigue viviendo.

AV

martedì 11 febbraio 2014

Forza Italicum, Porcellinum, Pregiudicatellum o Spagnolum?

Legge elettorale: perché il modello spagnolo segnerebbe un passo indietro per l’Italia.

Se si esclude la pur lunga stagione DC/PCI, possiamo ben dire che l’Italia non è mai stata un paese squisitamente bipolare. Va però anche detto che la galassia di partiti che dagli anni 70 in poi hanno caratterizzato la vita politica del paese ha regalato all’Italia una ingovernabilità culminata con il famoso governo Prodi del 2006 sostenuto da undici tra partiti e partitini – magari me ne sfugge qualcuno – e che si reggeva in piedi al Senato per due/tre voti. Situazioni come questa o come quella uscita dalle urne alle scorse elezioni del 2013, vanno evitate perché non fanno altro che regalare una perenne instabilità di governo che porta il paese a non far decidere un fico secco.
Ammesso e non concesso che il dibattito sulla nuova legge elettorale sia così importante da far dedicare all’argomento intere settimane e intere pagine di giornali, credo che prima di fare una riforma elettorale la questione più importante sia sapere qual è l’obiettivo di tale riforma.
A mio avviso, lo scopo di qualsiasi legge elettorale dovrebbe essere da un lato quello di garantire la rappresentatività del corpo elettorale. Dall’altro lato, quello di assicurare la governabilità del paese, decretando, all’indomani del voto, vincitori certi e in grado di dar vita a governi stabili.
Tuttavia, sulla base dell’accordo Renzi e Berlusconi, e che esclude moltissime altre forze politiche che in questo processo di negoziazione dovrebbero entrare, mi sorge spontaneo sottolineare che c’è un terzo aspetto che va considerato quando si parla di riforma elettorale. La legge elettorale deve infatti garantire lo svolgimento dei lavori parlamentari in maniera democratica, oltre al rispetto della costituzione. Perché dico ciò? Dico ciò perché in questi giorni non si fa altro che parlare di premi di maggioranza (già tacciati di incostituzionalità), di assenza di preferenze e soprattutto di sistema spagnolo.
Ora, è vero che il sistema elettorale spagnolo – sistema pensato all’indomani della morte di Franco – abbia garantito una certa stabilità a tutti i governi che si sono succeduti da allora in poi in Spagna. È però anche vero che quel sistema non garantisce la piena rappresentatività dei suoi cittadini. La scena madre di questa strana democrazia è, per esempio, quella che si presenta quasi puntualmente nel Congresso dei Deputati al momento del voto in aula, quando il capogruppo del partito di maggioranza alza la mano, indicando ai suoi compagni cosa votare. Se con la mano indica il numero uno i colleghi di partito voteranno sì, se indica il due questi si asterranno, con il tre l’intero gruppo voterà no. Così facendo, l’indipendenza del parlamentare viene praticamente ridotta a una perenne obbedienza al partito-caserma che detta a oltranza la linea guida di governo e parlamento, in una leggera confusione tra potere legislativo ed esecutivo. Ma c’è dell’altro. Chi vota contro la linea del partito rischia addirittura una multa interna da 100 a 500 euro, come è stato spiegato in un recente programma televisivo qui in Spagna, e molto probabilmente non verrà ricandidato nel listino.
Se da un lato l’attuale sistema elettorale spagnolo è servito a far affermare nel paese iberico una certa stabilità bipolare, dall’altro lato la scarsa cultura di partecipazione alla vita pubblica dei cittadini spagnoli ha permesso che dagli anni ’80 in poi fossero solo due grossi partiti, PP e PSOE, a fare il bello e il cattivo tempo. Salvo poi scoprire che la presenza di questa oligarchia onnipotente, che governa l’intero paese, regioni comprese, ha di fatto responsabilizzato molto poco il cittadino spagnolo.
Per dirla tutta, il modello spagnolo – che molti in casa nostra vorrebbero copiare – in realtà è un modello che va indietro rispetto alla bruttissima legge elettorale attuale e soprattutto rispetto al Mattarellum, dove erano previste le preferenze, al pari di stati come Belgio e Olanda, o di alcuni paesi scandinavi.

Prendere spunto da questo sistema elettorale per la nostra riforma sarebbe dunque un errore, soprattutto perché non terrebbe conto degli effetti che può produrre dal punto di vista della partecipazione del cittadino-elettore, il quale delegherebbe il suo voto ad un partito (e non ad un singolo individuo), allontanandosi ancora di più dalla vita pubblica del paese.

Personalmente, non mi sembra una bella conquista in un momento in cui l’Italia ha veramente bisogno di una rigenerazione democratica.

Il modello spagnolo:
- non prevede le preferenze;
- fa sì che i partiti piccoli non riescano quasi mai ad ottenere più di 15 seggi;
- dopo 35 anni ha creato un'oligarchia composta da PP (centro-destra) e PSOE (centro-sinistra) difficile da scrostare;
- ha fatto sì che il voto in aula dei parlamentari in Spagna avvenga dopo l'alzata di mano del capogruppo del partito che indica al resto del gruppo come votare, intaccando così l'indipendenza di ogni singolo deputato;
- ridurrebbe la partecipazione dei cittadini italiani nella vita pubblica del paese.