Legge elettorale: perché il modello spagnolo
segnerebbe un passo indietro per l’Italia.
Se si esclude la pur lunga
stagione DC/PCI, possiamo ben dire che l’Italia non è mai stata un paese
squisitamente bipolare. Va però anche detto che la galassia di partiti che
dagli anni 70 in poi hanno caratterizzato la vita politica del paese ha regalato
all’Italia una ingovernabilità culminata con il famoso governo Prodi del 2006
sostenuto da undici tra partiti e partitini – magari me ne sfugge qualcuno – e
che si reggeva in piedi al Senato per due/tre voti. Situazioni come questa o
come quella uscita dalle urne alle scorse elezioni del 2013, vanno evitate
perché non fanno altro che regalare una perenne instabilità di governo che
porta il paese a non far decidere un fico secco.
Ammesso e non concesso che
il dibattito sulla nuova legge elettorale sia così importante da far dedicare all’argomento
intere settimane e intere pagine di giornali, credo che prima di fare una riforma
elettorale la questione più importante sia sapere qual è l’obiettivo di tale riforma.
A mio avviso, lo scopo di qualsiasi
legge elettorale dovrebbe essere da un lato quello di garantire la
rappresentatività del corpo elettorale. Dall’altro lato, quello di assicurare
la governabilità del paese, decretando, all’indomani del voto, vincitori certi
e in grado di dar vita a governi stabili.
Tuttavia, sulla base dell’accordo
Renzi e Berlusconi, e che esclude moltissime altre forze politiche che in
questo processo di negoziazione dovrebbero entrare, mi sorge spontaneo
sottolineare che c’è un terzo aspetto che va considerato quando si parla di riforma
elettorale. La legge elettorale deve infatti garantire lo svolgimento dei
lavori parlamentari in maniera democratica, oltre al rispetto della
costituzione. Perché dico ciò? Dico ciò perché in questi giorni non si fa altro
che parlare di premi di maggioranza (già tacciati di incostituzionalità), di
assenza di preferenze e soprattutto di sistema spagnolo.
Ora, è vero che il sistema
elettorale spagnolo – sistema pensato all’indomani della morte di Franco –
abbia garantito una certa stabilità a tutti i governi che si sono succeduti da
allora in poi in Spagna. È però anche vero che quel sistema non garantisce la
piena rappresentatività dei suoi cittadini. La scena madre di questa strana democrazia
è, per esempio, quella che si presenta quasi puntualmente nel Congresso dei
Deputati al momento del voto in aula, quando il capogruppo del partito di
maggioranza alza la mano, indicando ai suoi compagni cosa votare. Se con la
mano indica il numero uno i colleghi di partito voteranno sì, se indica il due
questi si asterranno, con il tre l’intero gruppo voterà no. Così facendo, l’indipendenza
del parlamentare viene praticamente ridotta a una perenne obbedienza al
partito-caserma che detta a oltranza la linea guida di governo e parlamento, in
una leggera confusione tra potere legislativo ed esecutivo. Ma c’è dell’altro.
Chi vota contro la linea del partito rischia addirittura una multa interna da
100 a 500 euro, come è stato spiegato in un recente programma televisivo qui in
Spagna, e molto probabilmente non verrà ricandidato nel listino.
Se da un lato l’attuale
sistema elettorale spagnolo è servito a far affermare nel paese iberico una
certa stabilità bipolare, dall’altro lato la scarsa cultura di partecipazione alla
vita pubblica dei cittadini spagnoli ha permesso che dagli anni ’80 in poi
fossero solo due grossi partiti, PP e PSOE, a fare il bello e il cattivo tempo.
Salvo poi scoprire che la presenza di questa oligarchia onnipotente, che
governa l’intero paese, regioni comprese, ha di fatto responsabilizzato molto
poco il cittadino spagnolo.
Per dirla tutta, il
modello spagnolo – che molti in casa nostra vorrebbero copiare – in realtà è un
modello che va indietro rispetto alla bruttissima legge elettorale attuale e
soprattutto rispetto al Mattarellum, dove erano previste le preferenze, al pari
di stati come Belgio e Olanda, o di alcuni paesi scandinavi.
Prendere spunto da questo
sistema elettorale per la nostra riforma sarebbe dunque un errore, soprattutto
perché non terrebbe conto degli effetti che può produrre dal punto di vista
della partecipazione del cittadino-elettore, il quale delegherebbe il suo voto
ad un partito (e non ad un singolo individuo), allontanandosi ancora di più
dalla vita pubblica del paese.
Personalmente, non mi
sembra una bella conquista in un momento in cui l’Italia ha veramente bisogno
di una rigenerazione democratica.
Il modello spagnolo:
- non prevede le
preferenze;
- fa sì che i partiti
piccoli non riescano quasi mai ad ottenere più di 15 seggi;
- dopo 35 anni ha
creato un'oligarchia composta da PP (centro-destra) e PSOE (centro-sinistra) difficile
da scrostare;
- ha fatto sì che
il voto in aula dei parlamentari in Spagna avvenga dopo l'alzata di mano del
capogruppo del partito che indica al resto del gruppo come votare, intaccando
così l'indipendenza di ogni singolo deputato;
- ridurrebbe la
partecipazione dei cittadini italiani nella vita pubblica del paese.
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