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domenica 20 dicembre 2015

La politica spagnola si italianizza: Spagna al voto!

Foto: eldiario.es
A meno di un'ora dalla chiusura dei seggi, in un paese stravolto dalla crisi, la Spagna torna alle urne dopo quattro anni di governo Rajoy. Colpito da scandali di corruzione e indebolito da riforme impopolari, con un tasso di disoccupazione che sfiora il 23%, il PP del premier uscente con molta probabilità non riuscirà a governare da solo, portando sul panorama spagnolo l'esperienza più unica che rara di un governo di coalizione.

C'è chi parla di "atomizzazione" del prossimo parlamento o di "italianizzazione" della politica spagnola, visto che l'emergere di nuove forze politiche stasera spazzerà ufficialmente via il bipartitismo PP/PSOE - uno schema questo praticamente esistente dalla "transición" (1975) ad oggi. Già alle elezioni regionali della scorsa primavera l'emergere di Ciudadanos - partito regionale catalano convertitosi in partito nazionale grazie al carisma del giovane Albert Rivera - e Podemos - il partito di Pablo Iglesias, alter ego spagnolo di Tsipras, in grado di capitalizzare il movimento degli "indignados" e trasformarlo in offerta politica - ha permesso l'emergere di coalizioni di governo in quasi tutte le regioni. Una novità in una Spagna la cui legge elettorale e la scarsa offerta politica hanno sempre permesso l'alternanza destra/sinistra (tanto a livello centrale come periferico) con l'appoggio di partiti regionali come CiU, PNV o Coalición Canaria, o di piccoli partiti nazionali come Izquierda Unida o UPyD. Proprio questi ultimi due, unica alternativa finora a popolari e socialisti, sono però stati fagocitati dalla grande novità di questa campagna elettorale per nulla noiosa: Ciudadanos e Podemos, appunto, che hanno eroso consensi principalmente a PP e UPyD il primo, al PSOE e a Izquierda Unida il secondo.

La nuova destra di Rivera e la nuova sinistra di Iglesias hanno insomma rimescolato le carte, rendendo incerto chi sarà il prossimo inquilino della Moncloa e la governabilità di un paese, dove arancioni (C's) e viola (Podemos) entreranno in massa soltanto nella Camera dei Deputati e non al Senato. Un problema, se si pensa che in Spagna, come in Italia, la doppia lettura per approvare una legge è d'obbligo.

Con un'affluenza alle urne che non è riuscita a crescere nonostante le aspettative e la capacità delle forze emergenti di mobilitare le nuove generazioni, probabilmente stasera ci troveremo con una valanga Podemos, simile allo tsunami a 5 stelle del febbraio 2013, con il PP prima forza e Pablo Iglesias al secondo posto. Il PSOE del bel Pedro Sánchez, in una crisi senza precedenti, si attesterebbe al terzo posto, mentre Ciudadanos, dato al secondo posto fino a qualche giorno fa, potrebbe deludere le aspettative.

Ancora poche ore e ne sapremo di più. È comunque fuor di dubbio che a partire da domani niente sarà pi' come prima nella politica spagnola.

AV


martedì 11 febbraio 2014

Forza Italicum, Porcellinum, Pregiudicatellum o Spagnolum?

Legge elettorale: perché il modello spagnolo segnerebbe un passo indietro per l’Italia.

Se si esclude la pur lunga stagione DC/PCI, possiamo ben dire che l’Italia non è mai stata un paese squisitamente bipolare. Va però anche detto che la galassia di partiti che dagli anni 70 in poi hanno caratterizzato la vita politica del paese ha regalato all’Italia una ingovernabilità culminata con il famoso governo Prodi del 2006 sostenuto da undici tra partiti e partitini – magari me ne sfugge qualcuno – e che si reggeva in piedi al Senato per due/tre voti. Situazioni come questa o come quella uscita dalle urne alle scorse elezioni del 2013, vanno evitate perché non fanno altro che regalare una perenne instabilità di governo che porta il paese a non far decidere un fico secco.
Ammesso e non concesso che il dibattito sulla nuova legge elettorale sia così importante da far dedicare all’argomento intere settimane e intere pagine di giornali, credo che prima di fare una riforma elettorale la questione più importante sia sapere qual è l’obiettivo di tale riforma.
A mio avviso, lo scopo di qualsiasi legge elettorale dovrebbe essere da un lato quello di garantire la rappresentatività del corpo elettorale. Dall’altro lato, quello di assicurare la governabilità del paese, decretando, all’indomani del voto, vincitori certi e in grado di dar vita a governi stabili.
Tuttavia, sulla base dell’accordo Renzi e Berlusconi, e che esclude moltissime altre forze politiche che in questo processo di negoziazione dovrebbero entrare, mi sorge spontaneo sottolineare che c’è un terzo aspetto che va considerato quando si parla di riforma elettorale. La legge elettorale deve infatti garantire lo svolgimento dei lavori parlamentari in maniera democratica, oltre al rispetto della costituzione. Perché dico ciò? Dico ciò perché in questi giorni non si fa altro che parlare di premi di maggioranza (già tacciati di incostituzionalità), di assenza di preferenze e soprattutto di sistema spagnolo.
Ora, è vero che il sistema elettorale spagnolo – sistema pensato all’indomani della morte di Franco – abbia garantito una certa stabilità a tutti i governi che si sono succeduti da allora in poi in Spagna. È però anche vero che quel sistema non garantisce la piena rappresentatività dei suoi cittadini. La scena madre di questa strana democrazia è, per esempio, quella che si presenta quasi puntualmente nel Congresso dei Deputati al momento del voto in aula, quando il capogruppo del partito di maggioranza alza la mano, indicando ai suoi compagni cosa votare. Se con la mano indica il numero uno i colleghi di partito voteranno sì, se indica il due questi si asterranno, con il tre l’intero gruppo voterà no. Così facendo, l’indipendenza del parlamentare viene praticamente ridotta a una perenne obbedienza al partito-caserma che detta a oltranza la linea guida di governo e parlamento, in una leggera confusione tra potere legislativo ed esecutivo. Ma c’è dell’altro. Chi vota contro la linea del partito rischia addirittura una multa interna da 100 a 500 euro, come è stato spiegato in un recente programma televisivo qui in Spagna, e molto probabilmente non verrà ricandidato nel listino.
Se da un lato l’attuale sistema elettorale spagnolo è servito a far affermare nel paese iberico una certa stabilità bipolare, dall’altro lato la scarsa cultura di partecipazione alla vita pubblica dei cittadini spagnoli ha permesso che dagli anni ’80 in poi fossero solo due grossi partiti, PP e PSOE, a fare il bello e il cattivo tempo. Salvo poi scoprire che la presenza di questa oligarchia onnipotente, che governa l’intero paese, regioni comprese, ha di fatto responsabilizzato molto poco il cittadino spagnolo.
Per dirla tutta, il modello spagnolo – che molti in casa nostra vorrebbero copiare – in realtà è un modello che va indietro rispetto alla bruttissima legge elettorale attuale e soprattutto rispetto al Mattarellum, dove erano previste le preferenze, al pari di stati come Belgio e Olanda, o di alcuni paesi scandinavi.

Prendere spunto da questo sistema elettorale per la nostra riforma sarebbe dunque un errore, soprattutto perché non terrebbe conto degli effetti che può produrre dal punto di vista della partecipazione del cittadino-elettore, il quale delegherebbe il suo voto ad un partito (e non ad un singolo individuo), allontanandosi ancora di più dalla vita pubblica del paese.

Personalmente, non mi sembra una bella conquista in un momento in cui l’Italia ha veramente bisogno di una rigenerazione democratica.

Il modello spagnolo:
- non prevede le preferenze;
- fa sì che i partiti piccoli non riescano quasi mai ad ottenere più di 15 seggi;
- dopo 35 anni ha creato un'oligarchia composta da PP (centro-destra) e PSOE (centro-sinistra) difficile da scrostare;
- ha fatto sì che il voto in aula dei parlamentari in Spagna avvenga dopo l'alzata di mano del capogruppo del partito che indica al resto del gruppo come votare, intaccando così l'indipendenza di ogni singolo deputato;
- ridurrebbe la partecipazione dei cittadini italiani nella vita pubblica del paese.

martedì 28 maggio 2013

La politica degli scontrini fa flop!

Sui grandi temi economici e politici è sicuramente molto più facile la presa populista. Annunciare l'uscita dall'euro, il taglio dei finanziamenti ai partiti o la riduzione degli stipendi parlamentari può far gola ad un elettorato chiamato a decidere sul governo dell'intero paese. Ma sul governo delle città questo tipo di comunicazione non fa presa. Ecco perché per il Movimento 5 Stelle, senza una vera e propria emergenza in corso, era davvero difficile, se non impossibile, vincere le consultazioni
Il caso Pizzarotti a Parma è la prova di quanto appena detto. Laddove ci sono delle emergenze in corso il movimento di Grillo riesce infatti a stravincere, magari esasperando la descrizione di una realtà politica tutt'altro che onesta. Il risultato di ieri è invece la controprova che se le realtà locali richiedono semplicemente più contatto con il territorio, gestione immediata delle emergenze e risposte concrete, Grillo non vince. Dire che tutti hanno rubato non aiuta affatto ad amministrare un comune. Onestà e trasparenza sono sicuramente fattori importanti per gestire la cosa pubblica ma vanno tradotti in azione. Ecco perché i proclami populisti non hanno fatto presa sulle città chiamate al voto. Nemmeno sulla complicata Roma. 


Insomma, se non c'è un termovalorizzatore di mezzo, una TAV da distruggere, l'uscita dall'euro o una casta da bacchettare, Grillo perde. Se a questo ci aggiungiamo l'atteggiamento tenuto dal movimento dopo il voto di febbraio e durante l'elezione del capo dello stato, è comprensibile come i proclami di Grillo tali restano per gli elettori. Gli italiani sono davvero stanchi della politica cialtrona, sia di quella in stile ancien régime che di quella targata 2.0. Se i grillini non iniziano a negoziare e mettere in pratica quanto hanno detto di fare, il primo ragionamento dell'elettore italiano sarà: perché dovrei smettere di votare i vecchi politici se questi non fanno altro che parlare di scontrini? Come dargli torto.

AV

mercoledì 7 novembre 2012

Four more years.



"Four more years."

Certo rivedere Obama eletto, sentire il suo discorso sull'eguaglianza dei diritti, su quel paese che a sprazzi sembra avvilupato troppo su se stesso, ascoltare il suo "the best is yet to come", il meglio deve ancora venire. Beh tutto questo ha ancora il suo effetto. Così come vedere il tweet più retweettato di sempre, con l'immancabile Michelle. Nonostante la crisi, nonostante le tante promesse non mantenute, l'arte oratoria di Barack Obama riesce ancora a sedurre. Eppure, elettori democratici americani e cittadini europei a parte, l'elezione di Obama non è riuscita a sedurre i mercati internazionali, con le borse europee tutte in rosso e il Dow Jones che oggi ha chiuso a -2,13%. Ma non è tutto. Nella stessa giornata in cui il sogno americano da a sè stesso la sua seconda possibilità, in un "yes we can" atto secondo, le agenzie di rating alzano il cartellino rosso contro gli USA. Se infatti la spesa pubblica americana non verrà contenuta adeguatamente, la prima economia del mondo potrebbe subire lo storico declassamento da parte di Moody's e Fitch. A far scattare l'allarme, la possibilità di un mancato accordo tra repubblicani e democratici sul cosiddetto fiscal cliff, il pacchetto di sgravi fiscali messi a punto dall'amministrazione uscente per rilanciare l'economia del paese e le cui risorse scadranno il prossimo gennaio. Dove Obama troverà le risorse per rifinanziare un nuovo eventuale pacchetto di aiuti resta un mistero. D'altronde, l'economia (assieme alla politica estera) sono sempre stati il tallone d'Achille di Barack. Quel che è certo è che a poche ore dall'elezione del suo presidente, la finanza americana sembra battere cassa anche nei confronti della madre patria. E' il segno questo che ormai non si tratta più di finanza americana o inglese ma di una finanza globale con sede legale negli States o nella city londinese. Una finanza fluida e immateriale, ma soprattutto in grado di influenzare pesantemente le scelte del congresso americano così come quelle del parlamento britannico e in parte quelle di Bruxelles. Una finanza ormai a briglie sciolte e in grado di rovinare la festa del resuscitato sogno americano.

Se il buongiorno si vede dal mattino, il secondo mandato di Obama non sarà affatto una passeggiata.

AV

sabato 5 maggio 2012

Miseria e gattopardi

L'ora è giunta. Il tanto atteso momento del rinnovo di tante amministrazioni locali è infatti imminente. Eppure queste elezioni saranno molto diverse rispetto a quelle cui abbiamo assistito finora. Anzitutto perchè questa tornata elettorale segna il crollo delle formazioni partitiche tradizionali. Mai si è visto infatti un proliferare di liste civiche dove i partiti stanno al traino. Trucchetti elettorali per non metterci la faccia vista la cattiva fama di cui godono le formazioni partitiche? Può darsi. Ma c'è anche un'altra ragione a mio avviso. Esiste infatti l'esigenza di interpretare la politica al di là degli schieramenti. I partiti sono ormai etichette che poco si prestano ad interpretare la società contemporanea. Cosa divide un cittadino di sinistra o di centro da uno di destra se tutti e tre sono capaci e in grado di amministrare la propria città? Nulla! Assolutamente nulla! E a livello nazionale, la risposta cui la stessa politica non ha saputo dare risposta si chiama Governo Monti, dove centro, destra e sinistra stanno assieme per evitare il fallimento dello stato italiano. 

E' possibile un governo di salute pubblica anche per le amministrazioni locali? Non solo è possibile ma è doveroso. Senza partigianeria ed estremismi, le forze più produttive e intelligenti di ogni città dovrebbero infatti unirsi e spendersi per il proprio territorio. Ma per farlo bisogna evitare la demagogia, il populismo e soprattutto il vecchio vizietto del clientelismo. Un esercizio, quello di rinuncia al clientelismo e al voto di scambio, che deve partire prima di tutto dai cittadini-elettori. E' difficile, specialmente nel meridione d'Italia, non chiedere ad un politico un posto di lavoro, una licenza per aprire un panificio, una visita medica o la spesa per un mese. Eppure, queste sono richieste da miseria, richieste che fa e soddisfa chi vuole vivere nella miseria. Bisogna invece chiedere a colui che votiamo di creare lavoro e le condizioni per lavorare e non il semplice tozzo di pane che dura da Natale a Santo Stefano. Bisogna chiedere contratti e non lavoro in nero. Bisogna chiedere una città più pulita e non sporca e sudicia. Bisogna aprirsi ad accogliere turisti presentando il posto in cui si vive con orgoglio. Bisogna lasciare amministrare chi non usa o userebbe soldi pubblici per mettere su la propria baracca. Giocare con il lavoro o con la salute dei cittadini, costringendoli a votarti in cambio di lavoro o prestazioni sanitarie gratuite è infatti quanto di più miserabile un popolo possa sopportare. E purtroppo questo e' uno spaccato del meridione d'Italia. E' lo spaccato di una regione come la Sicilia, che ha subito l'umiliazione di vedere amministrata la sua terra da due presidenti indagati e arrestati (è il caso di Cuffaro) per reati gravissimi. E' la fotografia delle prossime elezioni comunali dove il rischio che cambi tutto per non cambiare nulla, come ci ricorda Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Gattopardo, è sempre dietro l'angolo. 

Buon voto a tutti!

AV

mercoledì 11 agosto 2010

Napolitano va in pensione

Stromboli


Le si invocano con forza. Con calcolo. Ed anche con molta fretta. A chiedere elezioni anticipate è anzitutto la Lega che non vuole governi diversi da quello di Silvio il federalista. Di Pietro chiama i suoi alle armi ma vorrebbe votare con un'altra legge elettorale. Il triumvirato Fini, Casini e Rutelli – già predetto da mio padre un anno fa, manco avesse la palla di cristallo – cerca di incantare un PD piuttosto bisex. 
Intanto, i berluscones capitanati da Feltri affilano i coltelli. La politica è in vacanza. Si presenta abbronzata alle telecamere nell’ennesima estate di crisi economica e sociale che chiunque si rifiuta di leggere e interpretare. Cattivo segnale.

Intanto, si parla di nuove elezioni. Ma che sarà mai! Solo l’ennesimo governo che se ne va. L'ennesima 'vacatio guberni' di un paese in odor di decadenza. Chi chiede elezioni anticipate non sa o fa finta di non sapere. Un nuovo voto, infatti, comporterebbe lo stop del paese per altri sei mesi. Se ne deduce che chi le chiede non lo fa certo per il bene dell’Italia. Attenzione però. Ciò non vuol dire che chi non le chiede e invoca governi di transizione lo faccia per il bene del paese! Anche lì, tra chi parla di aree di responsabilità e stronzate varie, le parole d'ordine sono speculare e incassare vittorie personali. E allora? Dove sta la verità? Chi può dirlo!

Sono convinto che di fronte ad una brutta premessa non possono che esservi brutte conseguenze. È però fastidioso sentirsi ripetere ogni giorno, a disco incantato, che bisogna tornare subito alle urne. E non tanto per la ripetitività dell’argomento, quanto per un fatto di prerogative costituzionalmente sancite. Come si fa ad arrogarsi il diritto di dire “bisogna tornare a votare” – mi riferisco all’uomo dal dito medio, che arriva a dire “abbiamo i voti del nord” quasi fosse diventato il suo padrone – quando la Costituzione prevede che il potere di sciogliere le Camere spetta al Presidente della Repubblica (art. 88)?

Tuttavia, quest’ultimo pare sia già andato in pensione. E non mi riferisco ad un alberghetto, ma al fatto che pare abbia mandato in pensione il suo ruolo istituzionale. Durante il marasma degli ultimi giorni, Napolitano è andato a Stromboli. In vacanza, dicono gli esperti. Secondo me, per abituarsi all’illusoria quiete offerta dai vulcani, visto che proprio adesso, caro Giorgio, sei seduto su di un cratere in procinto di esplodere.

AV