In questi giorni di passione in cui si continua a discutere con forza di riforma del mercato del lavoro, agitando il famoso spauracchio che l'abolizione dell'Art.18 dello Statuto dei Lavoratori (targato 1970) favorisce i licenziamenti facili, torna con grande forza il vero problema italiano: il rinnovo. In particolare, mi riferisco al ricambio generazionale. Che il nostro non è un paese per cambiamenti, riforme o addirittura rivoluzioni è sotto gli occhi di tutti così com'è altrettanto evidente che questo è un paese per vecchi. A qualsiasi osservatore esterno, l'Italia appare infatti come un paese che privilegia le fasce di età più adulte a scapito delle giovani. Dal sistema delle pensioni alla tutela, costi quel che costi, del proprio posto di lavoro, ogni indizio del pianeta Italia conferma questa tesi. Il tutto mentre le nuove generazioni, cui per decenni si sono prospettati guadagni e condizioni di vita migliori rispetto al passato, si vedono strappare via un'opportunità dopo l'altra a causa delle ingessature di cui le vecchie generazioni non desiderano liberarsi. E' comprensibile quanto sia difficile rinunciare ai vari privilegi accumulati nel corso del tempo. Dopo tutto a cadere sotto le grinfie della maledetta abolizione dell'Articolo 18 non sono mica i tanti giovani che un contratto a tempo indeterminato non sanno nemmeno cos'è, ma quei tanti lavoratori che oggi possiedono molte, forse troppe, tutele rispetto alla loro produttività. Una tutela minima va garantita a qualsiasi lavoratore, questo sia ben chiaro. Sono conquiste irrinunciabili e tipiche di un welfare moderno. Ciò che però è diventato intollerabile è la presenza di certi feticci che le vecchie generazioni faticano a seppellire. E tra questi totem vi è la partecipazione dei giovani alla vita pubblica. Non è un segreto che i giovani stentino a trovare una collocazione nel mondo del lavoro per via dei troppi e confusamente distribuiti meccanismi di protezione sociale (sussidi di disoccupazione, cassa integrazione ordinaria e straordinaria, assegni familiari e indennità varie); allo stesso modo, le elevate rendite di posizione guadagnate nel tempo da una certa fascia di uomini politici (di donne nemmeno a parlarne) sono tali da impedire un necessario ricambio generazionale nella vita pubblica italiana.
Un giovane può sbagliare ed essere più inesperto rispetto ad un vecchio. Può essere meno pragmatico e più superficiale. Può anche avere una visione della vita più fluida e veloce rispetto ai tempi dei cari genitori, zii e nonni. Eppure, se fin qui siamo arrivati non è certo per colpa di noi giovani "inesperti". Noi giovani "inesperti" abbiamo soltanto ereditato questo stato di cose. Ecco perchè quando qualche adulto ci apostrofa come "dilettanti", soffermandosi più sul fatto che essere giovani non significa necessariamente essere bravi, mi sento di rispondergli con la frase che più di tre secoli fa scrisse il filosofo francese Joseph Joubert: "i giovani hanno più bisogno di esempi che di critiche". E in quanto ad esempi, cari genitori, zii e nonni, negli ultimi decenni non ve la siete cavati benissimo.
AV