Ha dell’assurdo quanto accaduto domenica scorsa durante la gara
del Moto2 Gp di San Marino. Continuare a correre nonostante un concorrente di
quella gara, il diciannovenne Shoya Tomizawa, fosse morto durante la stessa è
qualcosa che dovrebbe spingere chiunque ad indignarsi. Ho ascoltato in radio le
dichiarazioni di Valentino Rossi. Affermava che sarebbe stato giusto fermarsi,
salvo poi commentare l'esito della gara dal punto di vista sportivo. A quel
punto, ho avuto la sensazione che per quella infelice scelta di continuare a
correre ci si scandalizzasse giusto il tempo di un battito d’ali. Soltanto un
giorno o poco più. Poi via nel dimenticatoio. La normalità. La morte di un
giovane scompare di fronte al mercimonio che circonda ogni tipo di show ed ogni
genere di spettacolo. Tutto diventa ascrivibile all’ordinarietà degli eventi.
Fermare la gara non lo avrebbe riportato in vita, ho sentito dire. Sarebbe
stato però un modo per ricordare. È come dire che non serve commemorare le
vittime di stermini e stragi perché non le riporterebbe in vita.
E così, l’informazione che spesso e volentieri orienta
comportamenti e costumi ha di fatto assecondato l'onnipresente show must go on,
con la morte di un ragazzo ridotta a poco più che un fatto. Nella narrazione
degli eventi c'è addirittura più spazio per commentare l’esito della gara – il
Fatto – che non per il decesso – divenuto soltanto il fatto nel Fatto. I
circenses del XXI secolo hanno ormai assunto una funzione ed un peso maggiore
rispetto a fatti tristi e di rottura come la morte. Tuttavia, essendo profondamente
convinto del rispetto che merita ogni singolo individuo nelle sue infinite
manifestazioni, liquidare quell'episodio a mera ordinarietà è per me
inaccettabile. Così come è inaccettabile dover assistere quotidianamente nei TG
ad un elenco numerico di gente morta in circostanze molto più drammatiche. Da
Baghdad a Kabul, numeri, statistiche, cose e non persone. È così che si riduce
l’importanza agli occhi del pubblico di quelle vite spezzate. Come carri
bestiame, quei numeri fanno parte di uno sterile elenco che non aggiunge
null’altro a quelle cifre. Un modo per snaturare il rispetto assoluto che
merita il singolo individuo, in quanto uomo e in quanto portatore di una sua
storia personale. Va invece ridata forza al linguaggio, alle parole, alla narrazione
dei fatti. Raccontarli senza assecondare i desideri dei potenti. Bisogna
orientare lo sdegno e l’indignazione necessari a far ribellare chiunque alla
dittatura mediatica ed economica di soggetti che – come i signori che stavano
dietro quella gara motociclistica – hanno a cuore solo il profitto. Va fermato
l’estremismo di qualsiasi ragion di stato in grado di fare macelleria di tutto
e tutti pur di mantenere in vita una sporca ragnatela di interessi. Sarebbe un
modo per ricordare, per fare memoria, per non cadere nella tentazione che non
ci si debba mai fermare di fronte alla morte di una persona in nome di un
interesse qualsiasi, specie se insulso come quello di una gara, di un gioco, di
un momento di ozio.
Tempo fa ci si scandalizzò, senza però condannare, perché alcuni
bagnanti continuavano a godersi la loro giornata di mare nonostante in spiaggia
vi fosse un cadavere. Ma questi fatti sono tutti figli di un unico orientamento
comportamentale, quello che riduce l’uomo a cosa, oggetto e non lo innalza
mai a persona. Egoismi ed autoreferenzialità sembrano dominare, in un’orgia di
spregiudicatezza materialistica. Sono invece convinto che in questo
postmodernismo, diventato ormai anche post-umanesimo, bisogna combattere per
riportare al centro l’uomo, la sua dignità, la sua soggettività,
indipendentemente dal ruolo ricoperto in società e al di là di ogni interesse.
AV
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